Quella che state per leggere è un’intervista-tortura ai danni del povero Romano Scarpa da me condotta nella sua casa veneziana circa una decina di anni fa, prima che si trasferisse nella assolata Spagna. Scarpa è probabilmente l’autore italiano che ha dato il più significativo apporto al mondo disneyano, così come l’aveva concepito Walt Disney.
Si è discusso tante volte sull’essenza della disneyanità e probabilmente per molti è stupido parlare di valori quando si parla di fumetti.
Gli eroi disneyani (e non escludiamo nessuno, dalla Banda Disney ai personaggi dei lungometraggi animati) hanno sempre avuto un quid tale da renderli fascinosi per decenni presso un pubblico di lettori e spettatori di ogni età: la disneyanità appunto.
Dire cosa sia la disneyanità sarebbe come pretendere di ricondurre lo spirito umano ad una serie di equazioni matematiche; di sicuro essa non si limita ad incarnare i “buoni sentimenti” come sostenuto mille volte dai tanti critici malpensanti.
Una cosa è certa: dopo Walt Disney stesso, Floyd Gottfredson e Carl Barks, chi ha saputo catturarla e farla propria nel migliore dei modi è il “nostro” Romano Scarpa.
La disneyanità in Scarpa si esprime totalmente nel suo Topolino, emblema della giustizia. Ma non di quella giustizia fatta di ossessiva obbedienza alla legge come quella di Matt Murdock, il Daredevil marvelliano, e tantomeno della giustizia distorta ed autoamministrata dal Punitore, che trova compimento nella condanna a morte dei criminali.
Topolino, che Scarpa ha saputo rendere magistralmente autentico, è un eroe senza sbavature, pronto al sacrificio per un amico in pericolo o capace di distinguere il bene dal male nelle situazioni più grigie. I suoi pochi difetti sono eclissati completamente dalla sua bontà. Un eroe, che anche grazie al contributo inestimabile di Scarpa rimarrà tale, dato che i prodotti Disney hanno la fortuna di essere considerati merce per bambini, e non potranno venire nevrotizzati e stravolti come è accaduto ad altri eroi dei fumetti, in veri e propri tentativi fallimentari di “attualizzazione”. Il peggio che può capitare a Topolino, Paperino, Biancaneve o Robin Hood è di diventare dei pupazzi senza spessore, quando a tirare i loro fili — e Scarpa ce lo dice a chiare lettere nell’intervista — sono autori che non ne conoscono la poesia e pensano che fare i fumetti o i filmati della Disney sia semplicemente un mestiere come fare il rigattiere o il direttore del marketing per una grande società finanziaria.
Anche tutti gli altri eroi Disney, dalla famiglia dei paperi a Biancaneve, assumono in Scarpa una dimensione superiore: Paperone, come già in Barks non è un taccagno stereotipato senza cuore ma mostra slanci di inaspettata generosità, Paperino non è un banale fallito, ma quasi sempre sfortunato, vittima delle circostanze, che però si sa produrre anch’egli in atti di eroismo. Qui, Quo e Qua, nonostante pargoli, dimostrano una serietà ed una responsabilità che permette loro più volte di trarre d’impiccio i più attempati zii. E gli esempi sarebbero innumerevoli.
Scarpa e la disneyanità si possono conoscere a qualsiasi età ed in qualsiasi condizione. Non è mai troppo tardi. Questa intervista approda sulla rete e si immerge nel flusso delle informazioni (e delle assai più numerose disinformazioni) in un mondo sempre più sinistro.
Quello che mi auguro semplicemente è che essa possa raggiungere le persone più inaspettate e suscitare in loro una curiosità misteriosa per un mondo, quello disneyano, dove c’è sempre possibilità di salvezza.
Claudio Piccinini, Forte dei Marmi, 7 Agosto 2001
Intervista a Romano Scarpa — Giugno 1991
Accanto al Ponte di Rialto, in una piccola corte raggiungibile attraverso una strettissima calle nei pressi della Chiesa di S. Grisostomo, abita Romano Scarpa. Visitare Venezia è sempre bellissimo e, in compagnia del vecchio Gertie (del cui soprannome Romano ci ha dato la pronuncia corretta!), ci siamo avventurati nella città lagunare. Dopo aver telefonato per prendere appuntamento per il pomeriggio abbiamo passato la mattinata da turisti, gironzolando per Venezia tra calli, portegli, corti e sottoporteghi cercando di rilassarci un po’ (operazione — almeno per me — senza alcun risultato). Finalmente si fa pomeriggio. Grazie alle istruzioni della gentilissima signora Sandra raggiungiamo agevolmente la casa. Emozionatissimo suono il campanello, saliamo le scale e mi trovo davanti Romano in persona che ci mette immediatamente a nostro agio guidandoci al suo ampio balcone. Facciamo conoscenza anche con la figlia Sabina, che tra l’altro è nostra coetanea. Il tempo bizzarro porta la pioggia in un caldo giorno di fine Giugno e la nostra intervista (sarebbe meglio chiamarlo colloquio) si svolge nello studio.
Claudio Piccinini: Desideravo iniziare con una domanda che può sembrare banale, ma in realtà non lo è. Cos’è per lei il fumetto? Una forma d’arte, un mezzo di comunicazione, semplice intrattenimento o tutte e tre le cose allo stesso tempo?
Romano Scarpa: Debbo dire che non posso, non riesco a considerarlo una forma d’arte vera e propria. Non credo sia già arrivato ad un grado tale da poterlo considerare un’arte, anche se sul termine arte ci sarebbe da discutere…
Infatti gli Americani definiscono art qualsiasi cosa riguardi l’aspetto grafico…
…l’estetica, sì, quindi arte con la A maiuscola direi di no. Senza dubbio possono esserci degli artisti con la A maiuscola che ci lavorano; non so però se sia in questo ambito, in questo tipo di espressione che possano arrivare ad essere dei veri artisti. D’altronde occorrerebbe allora vedere il fumetto pensato, scritto e realizzato da una sola persona. Come la mettiamo quando è opera di due o più mani? Verrebbe fuori il vecchio discorso che si può fare anche sul cinema: di chi è la paternità di un film? Può essere dello sceneggiatore, del regista o addirittura del tecnico luci che contribuisce a creare l’atmosfera. Spesso è quest’ultimo che decide, anche al di sopra del regista. C’è addirittura il produttore che dice “sono io il direttore d’orchestra, sono io che decido”, perlomeno in certi casi…
Quindi lei preferisce sicuramente l’autore completo.
Sì, naturalmente.
Anche io, ma occorre vedere il contesto. Per me, che sono anche un grande appassionato di fumetto Marvel, il lavoro di equipe può essere in certi casi migliore. Mi riferisco ad esempio alle storie Marvel degli anni ’60, dove il numero degli autori era in genere di due o tre, le prime sono quasi tutte di Stan Lee e Jack Kirby. La Marvel si basa sul lavoro di squadra, ed è chiaro quindi che vi sono stati dei prodotti scadenti. Però in linea di massima c’è anche più controllo, e in fondo chi gestisce maggiormente la storia è colui che la scrive…
Sì, è esatto, quello che decide di più è forse lo scrittore, ma colui che dà alla storia l’aspetto finale, definitivo è il disegnatore. È un po’ difficile dire se il Mandrake di vecchia memoria fosse opera di Phil Davis, il disegnatore, o di Lee Falk, lo sceneggiatore.
In passato c’era anche uno scambio molto maggiore di idee tra sceneggiatore e disegnatore, penso…
In ogni modo questo discorso era in funzione del voler definire arte il fumetto. Io non potrei definirlo in altra maniera che un delizioso modo di svagarsi, di evadere dalle incombenze, per uno che lo legge, naturalmente…
Sì, per certe cose, ma non può essere anche un qualcosa di più?
Può essere qualcosa di più dal lato didattico, istruttivo, culturale. Io sono rimasto un crociano, sono rimasto all’estetica crociata [Benedetto Croce (1866-1952) ha enunciato la teoria dell’arte come intuizione – n.d.r.] e quindi ben convinto — già lo ero prima — del fatto che l’arte non deve essere assoggettata a nulla ed a nessuno. Una sovvenzione può e certamente deve averla, perché altrimenti l’autore non può fare niente. Però egli deve essere libero. Questa è la base fondamentale…
Libera lo deve essere certamente, nel senso che non deve essere strumentalizzata…
…non finalizzata a niente di politico.
Però è chiaro che l’artista dice qualcosa di suo quando crea la storia.
D’accordo, ma ciò deve essere fatto in piena autonomia. In questo modo ognuno può esprimere liberamente quello che vuole. Il narratore la pensa in vari modi, ed in quei modi si esprime.
È vero — come è stato scritto varie volte — che lei non tiene troppo in considerazione l’apporto dato al fumetto Disney dagli altri autori italiani? Anche se al giorno d’oggi questo sarebbe piuttosto comprensibile, nel nostro paese ci sono e ci sono stati a mio giudizio, molti validi interpreti dello spirito disneyano, nonostante lei sia indubbiamente il migliore…
Devo confessare di sentirmi confuso da questo essere sempre definito il più bravo. Una cosa credo senz’altro di esserla più di qualcun altro. Credo di essere il più disneyano. È per questo che forse a volte mi sono lasciato sfuggire l’affermazione che in Italia non ci sono mai stati dei veri autori disneyani. Perché io li ho sempre visti come troppo… personali, se vogliamo, con dei meriti indubbi, ma molto, molto lontani da quello che era il genere Disney. Lo stile, lo spirito dei personaggi: io ho sempre visto queste cose molto maltrattate in virtù di una maggiore personalità, in senso nazionalistico, campanilistico; li ho sempre visti legati un po’ troppo al nostro mondo, che è piccolo in confronto a quello che è il mondo universale disneyano.
Secondo me il fatto che siano racconti italiani prelude per forza un riferimento alla nostra realtà nazionale, e ciò non vuol dire che le storie siano per questo snaturate nella loro essenza disneyana. Forse non erano molto “Disney” le prime storie realizzate in Italia, o non lo è la produzione più recente, ma negli anni ’60 e ’70 ci sono stati molti che hanno saputo dare il loro apporto al mondo Disney…
Sì, devo dire che ci sono stati, e qui ritorno al dualismo scrittore-disegnatore. Noi, in Italia, dobbiamo essere grati, anzi gratissimi, a quello che è stato l’ispiratore di gran parte delle storie pubblicate da Mondatori, e cioè Guido Martina, scomparso da poco tempo. Lui è stato veramente il maestro di tutti quelli che sono venuti dopo, e ci sono stati degli ottimi nomi che gli si sono affiancati. Ma devo appunto ricordare che è grazie a Martina se c’è stata una produzione di così largo respiro e di ampiezza tale, anche come generi. Era una persona talmente eclettica…
Martina era anche il traduttore di molte storie americane, anche di Carl Barks, giusto?
Sì, certo! Anzi, mi pare che il termine Bassotti, la Banda Bassotti, l’abbia coniato lui; anche Archimede Pitagorico è un nome suo… forse addirittura Paperon de’ Paperoni….
Ha dato delle versioni italiane che per me sono le migliori. Adesso, quando ritraducono le storie, non le trovo assolutamente all’altezza di quelle tradotte da lui. Per esempio, recentemente ho notato su Zio Paperone una storia che avevo letto a suo tempo: Paperino e il terribile 3P, ed ho trovato la nuova traduzione inadatta, fredda, fatta anche piuttosto male. Addirittura nella storia c’è un grammofono, nel quale si nascondono i tre nipotini, che è stato tradotto come “lo stereo”. Lo stereo, nel 1944!
Sì, perché si vuole dare un tocco più “moderno”…
Mi sembrava di ricordare questa storia tanto più bella; sono andato a confrontarla con la vecchia traduzione, ed in effetti è tutta un’altra cosa. Anche solo all’inizio, dove c’è l’amichetto di Qui, Quo e Qua, il maialino che era con loro nel “Club dei 3P”, che viene portato via dalla madre a lavarsi. Uno dei nipotini esclama: Povero martire! Aveva una stupenda crosta di sudiciume sul collo! Questa cosa è completamente persa nella nuova traduzione. Quando la lessi, questa storia mi aveva colpito in modo incredibile, perché era bellissima, ma in questa nuova traduzione per Zio Paperone…
Ecco, quella era una cosa… artistica.
Martina gli dava un’impronta tipicamente italiana, che io non penso sia male come diceva lei…
No! No! Non è che sia male…
I personaggi Disney in teoria vivono in America, però è impossibile…
Noi ce ne siamo appropriati, è questo il fatto.
I nostri riferimenti devono essere per forza quelli del nostro paese, visto che noi non viviamo in America…
Logico. Logico pensare che ormai i personaggi vivono qui. Si nutrono dell’apporto dei nostri autori, sono gli artisti italiani che gli danno la linfa adesso; e questo per me è un grosso limite al rispetto di quella che è la vera natura di questi personaggi. Tornando, per finire, a Martina, è necessario ricordare che è stato lui a seguire maggiormente certe “marachelle”, quasi certa “cattiveria”, che era insita in alcuni di questi personaggi. Lui la sottolineava, non aveva peli sulla lingua. Poi, col tempo, queste cose si sono moderate, anche in America. Non si deve infatti dimenticare che loro stessi, verso gli anni ’70, avevano raccomandato di non calcare la mano su certe cose pesanti, baruffe, battaglie, armi, cose violente, di non coinvolgere troppo i cosiddetti gruppi etnici…
Quest’ultima però mi sembra una cosa un po’ ridicola. Ho letto su Exploit Comics che nell’ultimo volume della Carl Barks Library (la ristampa cronologica di tutta la produzione Disney barksiana curata negli Stati Uniti dalla Another Rainbow) sono stati ridisegnati i visi degli indigeni omettendone i labbroni…
Sì, ma guarda che non è una cosa da mettere tanto in sottordine. Non dobbiamo dimenticare che fino ad alcuni anni fa i negri nei film li facevano parlare a suon di Zì, badrone…
Certo, ma nel racconto si tratta di una tribù di selvaggi. Anche un bianco, se fosse selvaggio avrebbe questo tipo di comportamento. Non è che…
No, non è una stonatura, è vero. Non è una cosa che possa offendere qualcuno; sono cambiamenti che tolgono quel tocco in più, che una volta si poteva mettere…
Anche la Gladstone non ha potuto a suo tempo ristampare un paio di storie in cui apparivano dei cannibali, a causa di questa nuova linea della Disney americana…
È esatto, però mi sembra che negli ultimi tempi si sia molto moderato questo eccesso di zelo.
Può darsi, ma quella attuale della Disney è una gestione totalmente diversa rispetto a quella della Gladstone…
Adesso noi siamo alle prese con dei soggetti per Adventures che sono molto diversi dalla nostra maniera di fare Disney; loro però li gradiscono così…
Una domanda sulle storie italiane. Nella maggior parte delle storie recenti, anche di un certo respiro, si tende ad appiattire la psicologia dei personaggi e le trame sono spesso ripetitive e banali. I personaggi Disney si stanno forse riducendo a degli stereotipi perché non trovano autori che sappiano ridare loro vitalità e spessore?
Che questo sia vero è fuori discussione ed abbastanza evidente. Sarebbe il caso di vedere perché succede. È possibile che non ci siano più degli autori, degli scrittori, dei soggettisti che abbiano delle idee, qualcosa di originale da mettere in campo? Ci sono, devono esserci, ma quello che probabilmente manca adesso — e da un bel po’ di anni — sono buoni esempi da tenere d’occhio e da avere sempre presenti. Una volta avevamo, come nostri modelli…
…i lungometraggi disneyani.
I lungometraggi, le trame, i cortometraggi, ma anche e soprattutto i fumetti. I fumetti di Barks o altri classici, che costituivano una fonte di ispirazione incredibile. Barks non si deve dimenticare… Il guaio è che non è uscito più nessuno di quel livello. Ditemi voi chi si può paragonare ad un Barks come storie… parlo di autori americani. Non ce ne sono più stati! Le cose più belle, secondo me, oltre a quelle di Barks, sono sempre state le storie a strisce lunghe, classiche, che sono finite negli anni ’50. Da quell’epoca in poi Topolino, dal personaggio favoloso che era e che io ho sempre preferito, si ridusse a protagonista di vicenduole di poco conto…
Tra l’altro, a proposito di quello che dicevamo prima, ciò avvenne a causa di un ordine imposto dalla King Features. È questa la cosa fastidiosa.
Fatto sta che anche il Topolino di Paul Murry, egregio come stilizzazione e come disegno, aveva storie di ben poco conto…
Paul Murry non mi è mai piaciuto. Come disegna Topolino proprio non mi va giù. Prima di conoscerne il nome sapevo che era un grande disegnatore, ma non è mai riuscito a risultarmi gradevole. Non lo reputo molto disneyano.
Lo è, esteriormente lo è, perché è tondeggiante, vecchia maniera. Ma quando ho visto Topolino portato a quel livello mi sono detto “Oddio! Topolino come personaggio è alle corde!”, perché oltre ad avere un disegno infantile questo Topolino era un pupazzo…
Il Topolino di Murry, per me, non solo non è disneyano, ma non è neanche disegnato tanto bene…
Ma nemmeno le storie valevano gran ché, secondo me. Erano proprio storielline all’acqua di rose, queste che comparivano nei comic books. Da quando Topolino è passato dalle strisce sindacate al comic book si è ritornati a voler accontentare i lettori più piccoli, di età media 9-10, 12 anni al massimo.
Però ci sono molte storie, sia di Topolino che di Paperino che si possono salvare, nei comic books. Ad esempio, a me piacevano molto quelle storie di Topolino e Shamrock Bones, o il Topolino di Bill Wright… Wright era bravo.
Sì, ma attenzione! Bill Wright è stato un grandissimo inchiostratore di moltissime storie di Gottfredson, che sono stupende. Anche lui ha fatto un simpatico Topolino, nel quale si rifaceva a Gottfredson, ma c’è un abisso tra l’uno e l’altro. Ha rifatto il racconto Topolino sosia di Re Sorcio, ma la differenza è incredibile come profondità ed introspezione del personaggio…
Intende introspezione attraverso il disegno?
Certo! Come fisionomia, atteggiamenti ed espressioni. Occorre vedere i personaggio in modo interiore anche con il disegno, come atteggiamenti e come espressività… Qualche storia è stata interrotta da Gottfredson per una striscia o due e passata a Wright, e si vedeva…
È chiaro che uno non è l’altro, però non mi sembra che Wright sia poco espressivo ed inanimato. Per intenderci, secondo me Murry è legato, è di legno, Wright assolutamente no!
No, scusa. Di legno dovrei dire che è qualcun altro. A Paul Murry puoi fargli varie critiche, ma non dire che è di legno perché è molto sciolto come atteggiamenti… è di legno come espressività. Intendo l’interiorità del personaggio, perché se non la esprimi con le espressioni — lo dice la parola stessa — i personaggi sono vuoti.
Esatto! Io dicevo come espressività. Un’altra cosa che secondo me oggi manca è una certa continuità. Non una continuità di trama, ma una continuità nell’interpretazione dei personaggi. Adesso si perdono troppo spesso di vista i caratteri dei personaggi, e si tende ad attualizzarli in maniera spesso discutibile.
Certo. Ma quello che da più fastidio è l’attualizzazione forzata, il metterli sempre in ruoli troppo moderni…
Il problema è che per i bambini che lo leggono adesso, questo è Topolino…
Eh sì, hai centrato il problema, è proprio questo. I bambini che crescono adesso vedono dei personaggi maltrattati.
Anche un semplice lettore in grado di ricordarsi storie degli anni ’70 può fare un raffronto. Molti lettori occasionali hanno smesso di prendere Topolino negli anni ’80.
Una persona ad una certa età smette di leggere Topolino. Quando ha passato i 15-16 anni normalmente smette. Per riprendere deve essere uno che esce dalla grande massa dei lettori occasionali, che si è appassionato ed affezionato a questi personaggi…
Non è così eccezionale… di lettori “grandi” ce ne sono un bel numero…
Fortunatamente sì!
Andando a leggere le sue recenti “Strip Stories”, le devo confessare che sono rimasto un pochino perplesso. Questo Topolino ecologo ed ambientalista a tutti i costi mi sembra così forzato…
Non vedo perché Topolino non debba preoccuparsi dei problemi ambientali. Lui è sempre stato coinvolto in problemi, ha vissuto sempre nella sua epoca… ha persino fatto la guerra!
È vero, ma mi sembra che adesso si cerchi di evidenziare soltanto il problema dell’ecologia. Mi sembra quasi una “involuzione” del personaggio.
Scusa, ma poiché lui si è sempre preoccupato di varie cose, ha vissuto i vari periodi di questo secolo ed è sempre stato dentro le circostanze e gli avvenimenti, perché impedirgli di occuparsi di un problema attuale come questo?
Non lo discuto, in quanto i personaggi Disney si sono già occupati anche in passato di ecologia, il fatto è che adesso si occupano praticamente solo di questo, che non è il problema più grave al giorno d’oggi. È ovvio che con i personaggi Disney non possiamo trattare certi problemi, però…
Ma lasciategli il tempo di vivere un’avventura e poi di “pensarne” un’altra!
Sì, ha ragione, io stavo parlando in generale, non solo delle sue storie. Mi spiego meglio: mi è sembrato un Topolino più svagato, con la testa fra le nuvole. Ad esempio, nella sua ultima Strip-Story Topolino e gli Uomini-Vespa (Topolino nn° 1853-1859) c’è un party in giardino, e Topolino, dopo aver ricevuto la tessera dell’U.P.U.P.A., parte a razzo piantando tutti lì. Non so perché, ma da parte sua mi è sembrato strano!
Ma era intenzionale. Era per mostrare che lui è più dinamico che salottiero. C’è un senso in questo, non è assolutamente fatto a caso. È un fatto intenzionale, ed è anche commentato da Pippo che osserva “Togliere le avventure a Topolino è come togliergli la coda… dato che se le tira dietro!”.
Forse allora è stata solo una mia impressione. Cambiamo domanda: lei ha spesso dichiarato di avere rinunciato, verso la metà degli anni ’60, a scrivere da se le sue storie per motivi di ordine puramente economico. Le è dispiaciuto molto?
Certamente! A quel tempo avevo anche proposto al vecchio direttore di Topolino, Mario Gentilini, di continuare le famose storie “a striscia” e pubblicarle in albi speciali, che permettessero la disposizione in lunghezza della striscia. Lui era interessantissimo, avevo dato anche un bel titolo a questa collana che poteva cominciare…
Con ristampe di materiale americano?
No no! Storie nuove che avrei realizzato io. Mi pare di avergli addirittura sottoposto delle prove per la copertina, e lui era interessatissimo. Poi mi disse “però verrebbe a costare di più”, io dissi “…in proporzione all’impegno ed al lavoro…”, ma lui rispose “No, no, lasciamo perdere!”…
Che peccato! Questo non lo sapevo. Il discorso che si fa oggi — e che non è assolutamente valido — è che si tratta di pubblicazioni per bambini. È ovvio che il pubblico privilegiato è quello, ma chiunque può constatare personalmente che un qualsiasi bambino a cui diamo da leggere il Topolino attuale, e Zio Paperone o Le grandi storie di Topolino preferisce ovviamente questi ultimi. Si fa comprare Topolino perché è il nome della testata, ma non per questo preferisce storie stupide…
Certo, il marchio. È il marchio che conta… Ma voi non apprezzate, in queste ultime mie storie, lo sforzo che ho fatto nel mettere le gag o i punti importanti in evidenza?
Naturalmente! La struttura a striscia che ha adottato è persino esaltata dall’impaginazione…
Appunto! E io spero di essere apprezzato in questo mio ultimo lavoro. Chiedo perlomeno di essere compreso nello sforzo di utilizzare quella tecnica, che permetteva di rendere la storia veramente avvincente. Non è possibile paragonarla a niente che sia mai stato fatto qui in Italia. Penso che quando queste storie si vedranno pubblicate in albo avrò un’enorme soddisfazione e ne sarò ripagato. Se tutto andrà in porto verranno riproposte dalla Comic Art in albi di formato orizzontale [è avvenuto in occasione di Lucca ’91 – n.d.r.]. È una valorizzazione enorme di questo tipo di lavoro, al quale io tengo moltissimo…
Nell’intervista con Gori, Sani e Boschi (nel volume “Romano Scarpa” edito da Alessandro Distribuzioni, Bologna, 1988) ha detto che tempo fa c’era la mania del giallo e che da diversi anni a questa parte non si possono più rappresentare certe cose, cose che non si farebbero più, perché la violenza è diventata quotidiana. Cosa intendeva dire?
È il discorso di prima, quella raccomandazione che avevano fatto agli Americani di non usare troppo nemmeno la violenza, oltre ad armi, etc. Questo perché di violenza ce n’è già abbastanza in giro. Metterla ancora più in luce, in risalto in queste storie, è un po’ fuori luogo. Con violenza occorre poi vedere cosa si intende, perché possiamo intendere anche un pugno, oppure una sopraffazione…
Okay, ma mi sembra un po’ ridicola la proibizione a mostrare le armi. Per me mostrare violenza non vuol dire assolutamente incoraggiare violenza, perché Topolino è sempre stato molto attento a non dare insegnamenti negativi ai bambini, ma è una presa di coscienza del problema. È una cosa che secondo me è fondamentale per lo spirito disneyano…
Purtroppo bisogna dire che c’è una limitazione a quello che si può fare. Io stesso quando posso un’arma in mano a Topolino la metto.
Tra l’altro mi sembra ridicolo che Topolino, in quanto detective, abbia sempre usato le armi ed improvvisamente non le usi più!
Non proprio improvvisamente: cinquant’anni fa — anche solo quindici anni fa — c’era un andazzo, oggi è tutto diverso. Devo dire che da molti anni la violenza vera e propria è uscita di campo, di scena, e si cerca di farla tornare di rado. Per esempio nelle storie recenti sui Signori della Galassia; (Topolino n° 1833-1834) a me non piace l’uso scenico che si fa delle battaglie, di tutte queste armi che — naturalmente — non uccidono, ma è un continuo rifarsi a “Guerre Stellari” dove era tutta un’azione serrata e violenta. Non parliamo di un’altra storia che rievocava un episodio di guerra dei Romani in Britannia, nel quale — spiegato in didascalia, d’accordo — restava un unico superstite vivo!!!
Be’, sì. Questo però è un tipo di rappresentazione, se vogliamo, gratuita. Io non parlavo di questa, ma di una violenza più reale e quotidiana, come lo stesso Gambadilegno che usa la pistola. Mi sembra insensato non mostrarla perché non rappresenta certamente un insegnamento negativo per un bambino, e trovo esagerate tutte queste precauzioni, che penso possano addirittura ottenere l’effetto contrario a quello voluto.
Il fatto è che esiste anche una sorveglianza riguardo a questo. Può anche succedere che un autore metta qualche arma e che poi queste vengano tolte. Questa faccenda non si discute perché è imposta, diciamo.
Sì, infatti, lo so, Ma quello che non capisco è il motivo di questa imposizione.
Non lo so. Anche io non sono d’accordo, perché in fin dei conti l’apparizione di qualche arma è sopportabile…
Penso sia possibile che un bambino al giorno d’oggi snobbi Topolino anche per questo motivo, perché trova molte storie poco vicine alla sua realtà quotidiana…
Sì, ma devi pensare che Topolino è quello che è ed ha la diffusione che ha proprio perché è sano e non si perde nell’horror, nella violenza, nel sesso e così via…
Questo è certo, ma non vuol dire non trattare un problema, bensì trattarlo e darne la giusta visione. Spessissimo invece il problema si evita…
Ma non è possibile trattare tutti i problemi.
Ovviamente no, ma lo dicevo limitatamente a ciò che si può trattare, Topolino sano lo è sempre stato. Forse questo nasconde anche una carenza di idee da parte degli autori o che so io, ma se si devono trattare solo certe cose, come l’inquinamento, bene o male si arriva a ripetersi. Storie di sola azione, o quelle insipide storie del Diario di Minni che appaiono adesso all’interno…
Non dimentichiamo che si deve anche badare ad un pubblico di ragazzine, di bambine che leggono Topolino…
Insisto facendo lo stesso discorso di prima, le ragazzine e le bambine ci son sempre state ed apprezzavano le storie brevi di allora, come le apprezzerebbero adesso. Secondo me è stata fatta una correzione di rotta che non era assolutamente necessaria.
Eh, ripeto, non posso dilungarmi o addentrarmi troppo in questa faccenda, perché è una questione che riguarda la direzione…
E comunque non è un problema presente solo qui in Italia, ma anche negli altri paesi…
Certo, vedete che non ci sono tematiche troppo forti nelle storie. Necessariamente Topolino non può trattare certi problemi come l’AIDS, l’alcolismo o la droga. Avrai notato però nella mia storia dello Spraysan (Topolino e l’enigma di Brigaboom – Topolino n° 1779-1791) il riferimento alla droga…
Era una cosa addirittura più preoccupante della droga, in quanto poteva esaudire quasi tutti i desideri delle persone. Ma è come Topolino affronta i fatti che mi lascia un po’ disorientato, questo Topolino ecologista proprio non mi va giù.
Topolino non può che essere contrario a questa cosa, Topolino è l’emblema della legalità…
Sono il primo a dirlo, ma io parlavo del suo atteggiamento, così svagato. Suona più di retorico adesso, non il perché; le vecchie storie di Topolino erano molto più incisive per il lettore, secondo me…
Mah! Dipende. Dipende anche dall’argomento che si tratta in quel momento. E poi indubbiamente col passare degli anni uno può cambiare un po’ sentimenti, preoccupazioni… È logico che le storie che facevo negli anni ’60 in un certo modo saranno diverse da quelle attuali.
Ripeto: un’evoluzione è naturale, ma adesso Topolino mi sembra un po’ troppo spensierato.
Sì, sì, indubbiamente. È possibile che lui risenta del peso dei suoi obblighi, delle responsabilità che si è assunto, dopo tanti anni di attività e che se la prenda un po’ più calma, stando un po’ più rilassato. Non dimentichiamo che il giudizio sulle vecchie storie può essere influenzato anche dalla nostalgia, anche se voi che siete giovani avete letto le storie vecchie in anni già recenti. Non le avete lette certo negli anni ’60.
È per questo motivo che mi permettevo di insistere. Non è una questione nostalgica; nel mio caso le sue storie degli anni ’60 le ho lette a 16/17 anni.
Sì, sì, in un periodo piuttosto vicino!
Mio padre ha iniziato a comprarmi Topolino quando avevo 2 anni e mi leggeva le storie; su Topolino ho imparato a leggere. Io sono “venuto su” con le sue storie degli anni ’70 e con quelle di Cavazzano spesso in copia con Pezzin o con Cimino, per citare quelle che preferisco. A me Pezzin piaceva molto. Ricordo le storie disegnate da Cavazzano quando il suo stile era al massimo, secondo me, come Paperoga e il Peso della Gloria,Paperino e la visita distruttiva o Topolino e il misterioso organizzatore. Le considero tra le più belle della produzione italiana. Le cose più recenti di Pezzin mi lasciano piuttosto scettico. Forse perché si è dovuto adeguare anche lui alle imposizioni del “nuovo trend” Disney anni ’90…
Eh, è quello, è quello…
Lo stesso discorso vale per Martina. Le ultime cose scritte prima di ritirarsi non sono all’altezza di altre scritte anche pochi anni prima. Ricordo ad esempio Topolino e i segreti di Casa Diavolo, che ho scoperto solo adesso essere di Martina, è una storia relativamente recente (Topolino n° 1225-1226) che a me piacque moltissimo. Ho letto qualcosa di più recente, prima che si ritirasse, e l’ho trovato piuttosto banale…
Adesso vedremo questa “Storia d’Italia”…
Mi ha detto Leonardo Gori che è da sceneggiare. Anche perché aveva già una certa età, più di 80 anni, 85 mi sembra… quando ho letto sul giornale che era morto ci sono rimasto malissimo. E pensare che nel trafiletto hanno parlato solo di Pecos Bill, o quasi…
Pecos Bill? Figuriamoci! Martina è stato uno dei pilastri della produzione Disney italiana ai tempi di Mondadori; è sempre stato un punto di riferimento per i disegnatori e i soggettisti.
Passiamo a una nuova domanda: si trovò subito a suo agio quando iniziò anche a scrivere le sue stesse storie? Mi riferisco alla bellissima Paperino e i gamberi in salmì che dovrebbe essere la prima.
Sì, è stata la prima che ho proposto anche come soggetto e sceneggiatura. In parte, per una ventina di pagine, era già disegnata; non in modo definitivo naturalmente… È stato un aprirmi il cuore a ciò che potevo fare di mio. Io provenivo dal disegno animato, nel quale ero abituato a decidere da solo tutto il da farsi. Mi appassionava scrivere le avventure oltre che animarle. Per questo iniziare a scrivere le storie Disney mi è venuto spontaneo e non mi ha dato nessun problema. Non solo mi sono sentito a mio agio, ma mi sono anche sentito finalmente autore delle storie che disegnavo. Tutt’ora per me scrivere un racconto è molto più appassionante che disegnarlo…
Penso anch’io. Mi ponevo questa domanda perché I gamberi in salmì è così forte, strutturata in modo perfetto come sceneggiatura, ed è la prima che ha scritto.
In effetti, se riguardo questa storia e quelle immediatamente successive, mi vengono i brividi nel vedere come sono disegnate, sono assolutamente insufficienti dal lato grafico, ma le apprezzo dal punti di vista… non voglio dire letterario, ma…
Lo potrebbe anche dire!
…della sostanza. Addirittura riguardando Paperino agente dell’F.B.I. mi sono chiesto “Ma è opera mia questa?” Lì il disegno è piuttosto scarso, e un po’ pesante, però queste storie, non per battermi la grancassa, avevano una consistenza che non trovavo negli altri soggettisti, nemmeno nel Martina di allora.
Martina molte volte si lasciava andare ed aveva il gusto del macabro. Ad esempio in Topolino e il Cobra Bianco ci sono cose pazzesche, torture… quello che mi stupisce è che sapeva comunque essere disneyano.
In quel periodo su soggetto di Martina ho disegnato Paperino in 3-D. Nell’insieme i suoi soggetti funzionavano sempre bene, ha avuto un grande seguito ed è piaciuto veramente tanto. Aveva una facilità estrema nell’adeguarsi a tutto il mondo Disney…
Le prime vere storie Disney italiane sono di Martina e Bioletto. Secondo me Bioletto era bravo…
Eccome. Capiva qual era il Disney ed era anche un grandissimo caricaturista. Ha creato ad esempio quei demoni ne L’Inferno di Topolino che in seguito sono stati sfruttati da tanti altri disegnatori.
Lei ha spesso definito Paperino come “un pasticcione nato”, un “inconcludente” o uno “scansafatiche”…
Mi pare che ci sia poco da dubitare su questo fatto.
Mah! Secondo me questo dipende molto da chi lo ha scritto. Ci sono certi autori che ne hanno fatto risaltare solo i lati negativi, però, nelle storie dove la personalità di Paperino è espressa pienamente si vedono anche i suoi pregi. Lui è magari pigro, fannullone, però ha questa sua poesia di fondo… Un discorso simile si può applicare a Zio Paperone: entrambi sono personaggi che per certe caratteristiche possono apparire negativi, ma a seconda delle circostanze Paperino può mostrarsi al livello dello stesso Topolino. Ha una personalità molto elastica, e penso che per questo sia sbagliato definirlo così a priori…
Sì, sì, difatti. L’ho detto anche in qualche altra occasione. C’è una storia dove ho cercato di rivalutare Paperino. Si tratta di Zio Paperone e il nipote ideale (Topolino n° 1294). Lì Paperino fa addirittura l’eroe…
E non è una forzatura. Si può dire che lui sia pasticcione, ma alcuni hanno fatto risaltare sempre questo fatto.
…E poi lo è anche per sfortuna!
Infatti. Ho voluto domandarglielo perché nell’intervista con i Toscani era stato piuttosto categorico nel definirlo…
…uno straccio! No, non è il caso di stracciarlo come personalità, tutt’altro! Per me è soprattutto dominato dalla sfortuna.
In svariate occasioni è stato scritto, per esempio da Franco Fossati o da Alberto Becattini, che per ogni character disneyano non esiste una personalità unitaria, che il Topolino dei cartoni animati è diverso da quello dei fumetti, che il Topolino di Ub Iwerks è diverso da quello di Floyd Gottfredson, che il Topolino italiano è diverso da quello americano e così via. Secondo me è sbagliato dire che un Topolino sia diverso da un altro Topolino, ed è invece corretto dire che diversi autori hanno interpretato l’essenza di un unico personaggio. Cosa ne dice? Un Topolino, o cento Topolini?
No, no. Topolino è uno. Topolino è quello.
Chiaramente abbiamo avuto autori che ne hanno dato interpretazioni banali o forzate, ma per me non ha senso dire “leggo il Topolino di Scarpa” o “leggo il Topolino di De Vita”, volendo fare una divisione.
È lo stesso discorso del disegno. Come è vero che i vari disegnatori lo illustrano a proprio modo, è altrettanto vero che il carattere del personaggio viene interpretato da chi lo scrive.
E per questo che mi arrabbio quando vedo Topolino “trattato male”, come quando vedo “trattati male” i personaggi Marvel (di recente, molto spesso — n.d.b.). ci sono autori che non rispettano i personaggi, e questo equivale a travisarli, a imporgli caratteristiche che non sono le loro. Topolino non possiamo reinventarcelo: anche se scritto male, rimane sempre lui, perché per i lettori è uno, è quello. È comunque comprensibile che questo accada su Topolino, per i grossi quantitativi di materiale necessari per la pubblicazione.
Eh, sì, c’è anche questo fatto che non è da sottovalutare. Su Topolino devono uscire tre storie alla settimana. Pensa un momento, è una cosa che ha dell’incredibile, e la si deve al direttore Gaudenzio Capelli, che ha spinto a tal punto da renderlo possibile.
Da qualche anno però come riempitivo ci sono storie brasiliane molto brutte. È possibile che non si possa attingere alla scorta di storie danesi o svedesi?
Ce ne sono alcune di Paperino barksiane, totalmente barksiane…
Ma sono pochissime in confronto a quelle brasiliane. Io ne ho letta una dove Paperinika veniva chiamata ad aiutare delle aliene… una cosa assurda… Disney?
Sì, sì, ho capito. Forse andrà bene per l’editore, ma…
Posso arrivare a capire le storielle di José Carioca, che è comunque una brutta copia di Paperino con in risalto solo i difetti. Nelle storielle brasiliane è lo sfaccendato totale…
Beh, forse ne fanno la caricatura di qualche personaggio locale!
Lei parla sempre dei personaggi come “veri attori”, che devono recitare la loro parte a secondo della loro psicologia e delle circostanze. Ma i personaggi dei fumetti quando vengono creati prendono vita. Secondo me non hanno bisogno di recitare nessuna parte: lo sceneggiatore (o l’autore) è il narratore delle loro vicende, il tramite fra il loro universo di carta fantastico ed il nostro mondo. Come ha detto una volta sua figlia, in relazione ad un personaggio da lei inventato “Papà, se non lo inventavi tu, nessuno avrebbe saputo che esisteva!”. Per me, più che attori è giusto dire personaggi vivi, animati dall’autore. Io ho capito cosa intendeva dire, ma attori è un po’ equivoco. Sembra che al termine della storia vengano abbandonati lì e rimangano come maschere vuote… È una sottigliezza, ma…
No, forse è bene precisare. Non attori. Sono attori solo nel senso che il disegnatore deve essere per loro una specie di regista. Un regista che dispone di questi personaggi…
Come un vero regista che fa recitare persone in un film. È lo stesso discorso, solo che i personaggi interpretano se stessi, vivono il film…
È esatto quello che hai detto, perché i personaggi, fino a che il disegnatore non li anima, sono nei “model sheets”, sono inanimati, sono marionette…
No, ecco, questo è per me il nocciolo della questione. Non dovrebbero essere marionette. All’atto della loro creazione, automaticamente i personaggi diventano vivi. Chiaramente, quando un autore ne dà un’interpretazione insufficiente o sbagliata, essi vengono “violati” nella loro psicologia, non sono più loro perché non sono rispettati. Non è che siano maschere o marionette, perché sono comunque vivi…
Guarda che vi sono degli autori che li rendono maschere e marionette. Troppi disegnatori li raffigurano come se fossero pupazzi, inespressivi, freddi ed amorfi. In sintesi, dipende dal disegnatore farli vivere.
Ecco, farli vivere, non recitare!
Sì, su questo sono d’accordo, altrimenti sono solo attori, fanno finta di essere quello che vediamo. Introdursi bene nel loro essere, questo è l’importante!
…Ed era questo che volevo chiarire, anche se può sembrare irrilevante. Un’altra domanda, che senza volerlo è anche collegata a questo “trattamento” dei personaggi. Cosa pensa dello scalpore suscitato dalla storia Topolino in: ho sposato una strega di Marconi/Cavazzano (Topolino n° 1785)?
Sarebbe meglio sorvolare…
Se vuole… Premetto che non mi è piaciuta.
Beh, diciamo che è stata un passo incauto. Anche per due cose, direi: primo, esclude, toglie di mezzo il personaggio di Minni. Minni non può venire ignorata in quel modo. Secondo, il finale della storia è piuttosto ambiguo.
Sì non l’ho capita. Come del resto mi ha fatto pena un’altra storia, Qui, Quo, Qua e il tempo delle mele, mi pare.
È per seguire certi film, certe cose alla moda. Un espediente per agganciarsi all’attualità.
Cosa pensa del cosiddetto “fumetto d’autore”? Mi riferisco in generale al panorama delle riviste da edicola ed alla distinzione tra questo ed il “fumetto popolare”.
Premetto di non essere molto esperto in questo campo. Devo dire che, seguendo sempre Comic Art e L’Eternauta vedo spesso cose egregie, meravigliose come stile. Ci sono cose sbalorditive anche come innovazioni, come interpretazioni delle classiche convenzioni grafiche del fumetto. Grafica eccellente, pittura raffinata, ora addirittura uno squisito senso plastico del “tutto tondo”. Ma per me, nonostante tutto questo, sono deprimenti.
Anche per me. Non tutto, s’intende. Ma adesso, a prescindere dai contenuti, la produzione attuale mi sembra un minestrone.
Sì, esatto. Io posso dirti quello che vedo e noto, e forse mi disturba un po’, ovverosia l’esibizionismo più sfrenato. C’è proprio la corsa a farsi vedere, mettersi in mostra. Fare a gara può anche essere uno stimolo a far meglio, però mi pare che si esageri. Il punto è sempre quello: non è solo una questione di disegno, occorre vedere quello che c’è sotto.
Vorrei sapere anche la sua opinione sulla “critica” del fumetto. Spesso i critici, nell’analizzare un personaggio, cercano significati reconditi nella sua psicologia, che magari l’autore stesso non inserirebbe mai. Addirittura questo è stato fatto con i personaggi Disney. Sono state scritte cose ridicole sulla sessualità dei personaggi disneyani…
È sempre una questione di speculazione, anche su questo argomento.
Anche perché la sessualità dei personaggi è quella che vediamo. Voglio dire: i personaggi disneyani non hanno delle deviazioni nascoste…
Eh, ma se vogliono mettere Freud anche qui possono benissimo.
A me sembra assurdo…
Certo che è assurdo. Ma lascia vivere anche questi critici…
Beh, io non sono assolutamente contro la buona critica. Mi infastidiscono certe persone che campano su queste cose, raggiungono fama e notorietà scrivendo queste cose, che dal mio punto di vista sono addirittura nocive per il fumetto. Inoltre spesso ci viene mostrato il fumetto come mezzo di comunicazione, mentre c’è ancora tantissima strada da fare perché lo diventi.
Non ha una diffusione tale da poter comunicare largamente… Secondo me, in definitiva, il critico deve fare il suo mestiere. Ho sempre pensato questo. Anche leggendo critiche di pittura, di musica o di cinema mi sono sempre chiesto: cosa di propongono queste critiche? Di insegnare, istruire i lettori/fruitori oppure influire sul lavoro degli autori? O vogliono addirittura ingraziarsi qualcuno? È un po’ misteriosa questa cosa. Io invece vedo meglio, sono forse più ottimista, e quando leggo una critica, di qualsiasi genere ed argomento, la leggo con piacere se è ben scritta, se è un bel pezzo, se è un lavoro a sé stante. Non mi interessa se vi si dice peste e corna do una cosa che a me è piaciuta. Se il critico la scrive bene in fondo fa un lavoro suo, ricrea quello che ha visto. Non può però pretendere di obbligare me ad accettare sempre quello che lui pensa come valutazione dell’opera.
Cambiamo domanda. Anche se negli anni ’80 il mercato americano si è notevolmente aperto alle influenze artistiche europee non si può certo dire che ci sia una volontà di proporre al pubblico le storie Disney italiane. Il debole tentativo della Gladstone sembra essere passato quasi inosservato, a parte l’entusiasmo di alcuni lettori. Perché, secondo lei?
C’è sempre stata una certa quale indifferenza da parte dell’editoria nostrana nel cercare di “sfondare” in America. Ricordo che dicevo spesso a Mario Gentilini “perché non provate a far pubblicare in America le nostre storie che qui hanno tutto questo successo?”. Topolino era arrivato a superare un milione di copie, eravamo nel 1974-’75, attorno al numero 1000. Ma, ripeto, c’era sempre una certa indifferenza, lasciare che se ne occupassero loro, gli Americani. In pratica questo è logico, perché sono gli Americani a detenere i diritti dei personaggi. Non era un affare da parte dei nostri editori. È compito degli Americani, se lo desiderano, interessarsi alla pubblicazione delle storie italiane. Oggi le cose sono molto differenti, ma Mondadori, per esempio, non poteva certo interessarsi in prima persona per farle pubblicare…
Adesso che c’è una gestione unitaria sarebbe quindi più facile…
Adesso sì.
Mi diceva Alberto Becattini che quando traduceva le storie per la Gladstone lo faceva senza alcun compenso e di sua spontanea volontà; il discorso era comunque diverso, perché la Gladstone era una casa editrice di appassionati. Adesso quasi tutti i comic books Disney hanno un criterio di pubblicazione casuale, tranne forse Walt Disney’s Comics & Stories e Mickey Mouse Adventures che cerca di avere una certa ‘impronta’ diciamo, e non è legata alla nuova animazione televisiva (al momento anche Mickey Mouse Adventures ha chiuso i battenti – n.d.r.). C’è una produzione americana nuova delle storie di Topolino che però, ovviamente, fa ciò che può…
Hanno pubblicato una storia italiana piuttosto lunga, credo addirittura in due puntate.
Sì, una storia di Bruno Sarda e Maria Luisa Uggetti. Sicuramente perché si trattava di “Indiana Pipps”. Con tutto il rispetto per gli autori non è certo la prima storia, o la più significativa, che ti viene in mente di pubblicare su quarant’anni di produzione italiana!
È evidente che loro cercano quelle cose che si attagliano maggiormente alla loro linea… Seguono dei criteri un po’ strani, ma ben “mirati”.
Meno male che i lettori americani hanno potuto conoscere Brigitta. Per un pelo, ma almeno…
Di questo devo essere proprio orgoglioso. Comunque hanno detto che pubblicheranno ancora storie mie.
Sì, ho letto anche nella posta di Uncle Scrooge che intendono pubblicare storie di Scarpa e di Rota. Ci deve essere una sua storia già pronta che doveva uscire per la Gladstone, dev’essere Paperino e il Colosso del Nilo…
Sì, quella è uno dei miei motivi di vanto, come ho detto e ripetuto varie volte, perché ha preceduto i lavori di salvataggio dei monumenti della Nubia. Al tempo in cui ho scritto quel soggetto, avevano già stabilito di usare sistemi ciclopici per mettere in salvo quei colossi. A me, profano di ingegneria meccanica, pensare di usare il sistema dei martinetti idraulici per spostare a monte i monumenti sembrava assurdo, così decisi di far escogitare ad Archimede tre sistemi per salvarli: puntavo sul terzo, che era quello buono.
Il sistema dei pezzi numerati…
Appunto. L’idea fu presa al volo dai tecnici e realizzata pari pari!
A Lucca, nel Novembre 1990, ha parlato della prova di animazione realizzata per la serie americana Duck Tales, e della competitività nei costi degli animatori giapponesi. Non sarebbe possibile realizzare una serie di cortometraggi, anche senza scadenze precise, tramite la Walt Disney Company italiana?
Sarebbe il mio sogno, ma è una cosa che non gli interessa. Non gli interessa perché non renderebbe, non sarebbe ‘business’ Io avevo anche un altro progetto, riguardante i fumetti in TV.
Sul tipo di Super Gulp?
Esatto, ma a me fatto in quel modo non soddisfaceva molto. Io l’avevo pensato in altra maniera e volevo anche fare alcune prove, ma la mancanza di tempo me l’ha finora impedito. Il fatto è che si guarda sempre più al mercato fiorente delle videocassette.
È vero. Con l’home video si è aperto un commercio incredibile. Cip e Ciop, le Duck Tales, Talespin. Restando nel “comic”, Talespin mi sembrava addirittura carino, un’interpretazione avveniristica dei personaggi del Libro della Giungla. Carino, ma se rimaneva una cosa isolata. Poi hanno fatto la serie regolare, per supportare il cartone animato, e questo non mi è piaciuto (attualmente la maggior parte dei comic-books disneyani ha chiuso i battenti, Talespin incluso). I bambini, secondo me, sono tanto entusiasti per queste cose anche perché non hanno molte alternative. Questo è Disney, oggi.
C’è da apprezzare lo sforzo di tentare il nuovo. Io ho sott’occhio i model sheets, gli studi per fare questa serie semi-animata di Talespin, affidata al Giappone, e sono una cosa favolosa. Tutti gli studi sull’ambientazione sono eccezionali. La realizzazione in fumetto è nettamente inferiore allo studio che c’è dietro al cartone animato.
Volevo farle una domanda a proposito del lungometraggio Il quarto Re, che aveva realizzato nel 1976 per la RAI Corporation. Lavorò su un progetto preesistente?
L’ho sceneggiato basandomi su uno script molto dettagliato. Non era possibile mettervi un gran apporto, perché era già definito. Era strutturato su quattro canzoni, e devo dire che — visto a distanza di tempo — la cosa più bella di quel lavoro era proprio la colonna sonora originale. Una cosa fortemente suggestiva che nella versione italiana è andata perduta, per la vecchia mania di voler doppiare le canzoni.
Secondo lei è ancora reperibile? Alla RAI lo hanno ancora?
Certamente. È nel catalogo della Sacis.
Dev’essere stata una bella soddisfazione, un lavoro tutto suo, uscito con l’etichetta Romano Scarpa…
Sì, una cosa entusiasmante. Lavorare a quel lungometraggio è stato un rituffarmi in quello che era il mio mondo iniziale dal quale non avrei mai voluto staccarmi, quello dell’animazione. Invece gli eventi mi hanno trasferito nel fumetto, cosa che peraltro ho fatto molto volentieri e che mi ha permesso di condurre una vita tranquilla e indipendente. Aggiungiamo pure che ultimamente ho avuto anche delle grosse soddisfazioni morali. L’ultima risale a poco tempo fa, quando c’è stata la riunione annuale dei collaboratori Disney, che si svolge ogni anno in Giugno. Quest’anno [nel 1991 – n.d.r.] era a Riva del Garda, e mi hanno assegnato un premio che hanno istituito per la prima volta: il “Premio Topolino”, rappresentato da una copertina in argento, per il miglior collaboratore.
Romano ci mostra poi il premio, che potete vedere qui insieme ad altre riconoscenze. È la riproduzione in argento di una sua copertina di Topolino uscita durante la pubblicazione delle Paperolimpiadi. A questo proposito ci mostra un corposo albo svedese stile Classici di Walt Disney che raccoglie tutta la storia in un volumetto unico. Dopo le dediche, saluti, abbracci ed autografi d’obbligo ce ne andiamo, tutto a tempo di record, lasciando l’incanto di Venezia per tornare alla nostra amata Modena.
Intervista raccolta ed adattata da Claudio Piccinini. Guest Paolo Bertoni (Gertie)